Rischio sismico altissimo
Al di là delle polemiche scatenate tra questa posizione e quella dei sismologi più cauti, è indubbio che tra la Sicilia e la Calabria c’è una delle zone sismiche più pericolose d’Italia. Se nessuno può dire con certezza quando ci sarà “the big one”, il grande terremoto, tutti concordano sul fatto che avverrà. E purtroppo, il territorio è tutt’altro che pronto.
Sisma tra il 7,5 e il 7,9
Il Salvagente ha innanzi tutto chiesto ad Alessandro Martelli su quali basi ha lanciato l’allarme: “In Italia esiste una scuola di sismologia non ben accettata da quella tradizionale. Ha sede a Trieste ed è guidata da Francesco Panza, ordinario di sismologia all’Università di Trieste, accademico dei Lincei e della Russian Academy of Science, con cui lavora su alcuni studi. Questo centro di ricerca fa esperimenti di previsione dei terremoti”. I dati di questi studi, ci spiega Martelli, evidenziano una allerta per un terremoto grosso, tra i 7,5 e i 7,9 gradi, in questa zona del Sud.
E aggiunge: “Possiamo dire, al di là delle polemiche, che le loro previsioni sono riuscite nel 70% dei casi. Lo dico da persona estranea che giudica i dati”.
Rischio impianti
Cosa comporterebbe un sisma del genere in quel territorio? Il problema principale, come ci spiega Enzo Parisi di Legambiente Sicilia, è che “nella Sicilia orientale ci sono tre aree a forte rischio ambientale legate ad altrettanti impianti petrolchimici. Gela, Priolo (con Augusta e Melilli) e Milazzo. Aree che preoccupano chi vive lì. Due o tre volte l’anno capitano incidenti dentro gli impianti”.
Le città circostanti avrebbero bisogno di un piano d’emergenza ad hoc. “Ma la gente che sta nelle vicinanze degli impianti non sa come comportarsi. Non gli viene mandato materiale informativo in casa ogni anno. Non vengono fatte le esercitazioni”, continua il rappresentante di Legambiente.
Impianti inadeguati
Eppure il presidente di Confindustria Siracusa ha recentemente dichiarato che gli impianti sono adeguati ai livelli di sismicità più alti. “Sta dicendo una menzogna”, ribatte Parisi. “Gli impianti sono degli anni 50 e non sono mai stati adeguati. Non c’è una certificazione che lo dimostri. Un paio di anni fa è crollato un pezzo di pontile dell’impianto Erg nel porto di Augusta. Sempre in quel pontile è cascato un braccio di carico. Stiamo parlando di milioni di tonnellate di produzione petrolifera nello stoccaggio. Se si sdraia un serbatoio e prende fuoco fa incendiare tutti gli altri. Si svilupperebbe una nube tossica che invaderebbe il Mediterraneo. Non sto esagerando”.
Non solo petrolio
E non c’è solo petrolio. Ci sono altre sostanze estremamente tossiche, come l’acido fluoridico, altamente corrosivo, e poi etilene, propilene, butano. Ci sarebbe una grande esplosione, oltre all’inquinamento delle falde e del mare. L’ultimo incidente spettacolare risale al 2006, quando ha preso fuoco una linea di petrolio che attraversava la strada provinciale. L’incendio è durato tre giorni e la strada è stata chiusa per 6 mesi. E tra Augusta, Priolo, Melilli e la parte nord di Siracusa, sono 100mila le persone a stretto contatto con quell’impianto.
La gente morirebbe per le esalazioni
Rincara la dose Alessandro Martelli, dell’Enea: “Per gli impianti non c’è una normativa speciale, non si conosce la loro stessa vulnerabilità, non c’è una procedura ah hoc per metterli in sicurezza. Considerato il tipo di movimento del terreno c’è la grossa probabilità di registrare una incapacità degli impianti di reggere le conseguenze di un collasso. Parliamo di un’eventualità in cui la maggior parte delle persone morirebbe per le esalazioni, non per la scossa”.
Edilizia impreparata
E se non bastasse il problema degli impianti industriali, quella parte della Sicilia ha anche grossi deficit edilizi dal punto di vista sismico. Lo conferma al Salvagente Carmelo Grasso, presidente dell’Ordine degli ingegneri di Catania: “Circa il 70% del costruito è precedente al 1981, data dell’introduzione delle norme antisismiche, e quindi non è adeguato. La maggior vulnerabilità riguarda gli edifici in cemento armato costruiti senza norme antisismiche. Chiediamo che venga fatto un piano della vulnerabilità degli edifici costruiti prima dell’81, a partire da scuole, ospedali, prefettura. E da lì bisogna intervenire in ordine di priorità”.
Meglio prima che dopo
I soldi che servono sono molti, ma Grasso fa un rapido calcolo per sottolineare la necessità di spenderli prima piuttosto che a disastro avvenuto: “Negli ultimi 40 anni sono stati spesi 150 miliardi di euro per la ricostruzione post calamità naturali. E secondo dati della Protezione civile, basterebbero 40 miliardi per mettere in sicurezza il territorio. Per i privati, invece, bisognerebbe detassare chi decide di abbattere un palazzo vecchio e ricostruirlo. Non fargli pagare l’Imu, gli oneri concessori”.
I rischi dunque sono molti, e il territorio non è affatto pronto. Si spera che per una volta la storia non si ripeta.
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