La frequenza con cui si parla della visita di astronavi extraterrestri sul nostro pianeta e di incontri, più o meno ravvicinati, con creature aliene, nasce da un interesse assolutamente legittimo e non ha, in sé, proprio nulla di fatuo o di ozioso, come piace pensare ai corrucciati e seriosi parrucconi della cultura accademica.
Ciò detto, bisogna però subito aggiungere che si tratta di una forma di pura evasione intellettuale, se non si possiede la piena ed intera consapevolezza che ciascuno di noi è un alieno, nel senso che ciascuno di noi è originario, letteralmente, di un’altra dimensione. Benché abitanti della Terra, noi non siamo figli di questa dimensione spazio-temporale, ma siamo figli dell’infinito.
Siamo giunti qui da altre dimensioni e da altri mondi, chiamati da una forza misteriosa, e a quella chiamata abbiamo risposto: «Sì», in un tempo e in un luogo dei quali non abbiamo conservato il ricordo, se non in forma estremamente confusa e indistinta, almeno stando a quanto ci dice il nostro Logos razionale (ma non così la pensano, ad esempio, i sogni che vengono a visitarci, la notte, in una sfera felice, sottratta alla tirannia di quest’ultimo).
Il fatto che, crescendo, la stragrande maggioranza degli esseri umani si dimentichino della propria origine ultradimensionale, ha come curiosa conseguenza che quei pochi che ne serbano memoria, finiscono per essere considerati un po’ “strani”, e, magari, anche per considerarsi “strani” essi medesimi.
Non stiamo parlando di teorie relativamente grossolane, come quella di Erich Von Däniken, secondo le quali noi siamo il frutto di un incrocio, o piuttosto di una serie di ibridazioni, fra gli ominidi cari all’evoluzionismo darwiniano e qualche evoluta razza proveniente da lontani corpi celesti.
No; non vogliamo alludere a una nostra provenienza aliena nel senso materiale del termine; non vogliamo dire che i nostri progenitori siano giunti sulla Terra a bordo di astronavi e cose del genere (per quanto, la cosa potrebbe anche essere vera, né l’idea dovrebbe destare particolare scandalo; non più di quella di Darwin, comunque, che ci vorrebbe discesi dagli alberi).
Vogliamo dire, più semplicemente, che, in senso tecnico, nessuno di noi è veramente un terrestre, se per terrestre si intende una creatura materiale interamente legata ai propri processi fisiologici e al proprio ambiente fisico: insomma una creatura che esaurisce tutto il proprio campo esistenziale in un orizzonte puramente circoscritto e immanente.
La nostra parte spirituale, di cui il corpo è solo un supporto temporaneo (e, a nostro parere, illusorio, così come ogni altro ente materiale), viene da molto, molto lontano; non dalle stelle in senso astronomico, ma certamente dal Cielo in senso figurato. L’Essere luminoso, supremamente cosciente, infinitamente beato, ci ha tratti dal non-essere e ci ha chiamati a collaborare per tessere il meraviglioso arazzo dell’universo.
Un importante corollario della nostra non casualità è che, se non siamo giunti qui in seguito a un capriccio del destino, non sarebbe logico né sensato immaginare che per caso le nostre vite, talvolta, si sfiorino con quelle di altre creature; ma è molto più realistico pensare che ogni incontro che facciamo nella vita sia il risultato di un disegno vastissimo e armonioso, incommensurabilmente saggio e paziente, il cui scopo è aiutarci a fare ritorno, nel modo migliore e più felice possibile, alla luminosa sorgente dell’Essere.
Nulla incontriamo per caso: né i luoghi, né le situazioni, né le piante e gli animali o, tanto meno, gli altri esseri umani.
Questo, però, non significa affatto che tutto sia stato già predisposto e che a noi non resti altro che recitare la parte che altri ci hanno costruita. Infatti, c’è un momento, ed uno solo, nel quale noi siamo veramente pronti per gli incontri che facciamo, ed esso dipende proprio da noi e dal nostro livello di maturazione spirituale. Se quel momento non è ancora giunto, noi non siamo neppure in grado di riconoscere gli incontri della nostra vita; tanto meno saremmo in grado di trarne il benché minimo vantaggio.
Se un uomo delle caverne si trovasse fra le mani un calcolatore elettronico, non solo non saprebbe che farsene, ma nemmeno capirebbe che genere di oggetto sia: ne sarebbe così lontano che, probabilmente, rinuncerebbe a qualsiasi congettura. Infatti, quando il divario tra la realtà e la nostra capacità di percepirla è troppo grande, quello che inevitabilmente si verifica è un vero e proprio “black out”. E così facciamo noi quando incontriamo persone o situazioni importantissimi per la nostra crescita spirituale, ma che si trovano troppo al di sopra del nostro livello attuale: non li notiamo nemmeno.
Se una persona comune incontrasse un Maestro, ad esempio, è cosa assolutamente certa che non lo riconoscerebbe, a meno che egli stesso non decidesse di rivelarsi; cosa piuttosto improbabile. Potrebbe darsi che un barbiere, ad esempio, serva per anni un certo cliente e gli tagli i capelli e la barba come a qualunque altro cliente; e tuttavia ignori di aver avuto il privilegio di trovarsi in presenza di un Maestro, ossia di una creatura umana che ha raggiunto un altissimo livello di consapevolezza spirituale.
Certo, potrebbe forse notare (ma non è detto) una certa qual luce misteriosa nel suo sguardo e, soprattutto, potrebbe percepire delle onde di energia positiva irradiare dalla sua persona; ma di qui a sospettare la verità, ce ne corre.
Di sicuro egli non immaginerebbe che il suo cliente è una creatura capace di lasciare il proprio corpo fisico e quello eterico, di viaggiare con il corpo astrale fin nei più lontani pianeti, di vedere nel segreto delle anime e di collegarsi, entrando in meditazione o in preghiera, con la ineffabile sorgente dell’Essere, per riceverne ogni sorta di beneficio.
I pittori del Rinascimento solevano raffigurare i santi con l’aureola sul capo; ma, naturalmente, si tratta di una rappresentazione convenzionale. Di fatto, la santità non possiede dei segni di riconoscimento fisici che chiunque possa percepire di primo acchito; solo le persone che già sono dotate di una cospicua elevatezza spirituale possono, forse, intuirla a prima vista.
Dunque: ci si incontra, ci si sfiora, si passa oltre.
Raramente ci si riconosce, cioè si riconosce che la persona che stiamo incrociando in quel momento non è un viandante indifferente, che per puro caso sta incrociando i propri passi con i nostri, ma proprio quella persona che stavamo aspettando e che stavamo cercando. Ma quando il riconoscimento ha luogo, allora si accende un momento prezioso, emozionante, che riscatta mesi e anni di grigiore e di apatia. È come se un colpo di frusta ci rimettesse in piedi, scuotendoci dal nostro sonnecchiare, dal nostro vegetare: il sangue scorre più rapido nelle vene, pensieri entusiasmanti si affollano alla mente…
Lo ripetiamo: nessun incontro avviene a caso; ma capirlo e agire di conseguenza, ciò dipende dal nostro livello di consapevolezza.
Potremmo passare accanto a un tesoro, senza neanche vederlo; ma, quando siamo pronti, il significato di quell’incontro non ci sfuggirà. E i legami che possono nascere da tali incontri consapevoli, caratterizzati dalla reciproca attesa e dal reciproco riconoscimento, hanno veramente il profumo dell’infinito e la fragranza ineffabile dell’altrove e dell’eterno… se di eterno è lecito parlare nel contesto di questa dimensione spazio-temporale.
Crediamo che un elemento essenziale, decisivo, perché possano verificarsi degli incontri di questo genere - e non solo con le persone, ma anche con le situazioni o con qualsiasi altro ente - sia l’aver conservato in sé un po’ di quella freschezza, di quella spontaneità, di quella fiduciosa apertura verso il mondo che sono (o forse, ahimè, dovremmo dire: che erano) tipiche dei bambini.
Senza l’incanto del mondo, senza una certa quale ingenuità di fronte alla vita (e usiamo la parola nel suo significato più bello e positivo) passeremmo loro accanto senza degnarli di uno sguardo, con la più totale inconsapevolezza.
Le condizioni della società contemporanea, in particolare, sono tali da rendere ancor più difficili sia la consapevolezza, sia il riconoscimento degli incontri positivi (quelli negativi, infatti, non richiedono alcuna particolare capacità di percezione; sebbene anch’essi, come gli altri, discendono da una fondamentale ignoranza della propria verità interiore). La fretta convulsa, l’utilitarismo smaccato, l’alienazione causata da uno stile di vita consumista e delirante, la deresponsabilizzazione dell’individuo rispetto ai grandi apparati sociali e la continua derisione dell’ingenuità, in nome di una furbizia maligna e sommamente egoistica: tutto questo si oppone al riconoscimento delle realtà spirituali, in se stessi e negli altri.
Dovremmo ritrovare un po’ di quella freschezza, di quella spontaneità, di quella apertura esistenziale che avevamo da bambini e che l’intera società ancora possedeva, in qualche misura, fino alla svolta degli anni Settanta del secolo scorso (riferendoci, ovviamente, al contesto sociale e culturale dell’Occidente).
Parliamo di quando il consumismo, la tecnica, il pragmatismo e l’efficientismo esasperati, il produttivismo eretto a valore supremo, non avevano ancora distrutto interamente l’incanto del mondo negli adulti e, con esso, quella benevola ingenuità, quella accogliente capacità di stupirsi e di gioire anche per le piccole cose.
Parliamo di quando una scatola di soldatini o una bambola erano, per i bambini, la fonte di una gioia immensa e durevole.
Parliamo di quando una corsa in bicicletta o quattro chiacchiere tra coetanei erano tutto quanto un adolescente o un giovane desiderassero, al di fuori degli impegni dello studio e della collaborazione familiare per i lavoretti domestici.
Parliamo di quando una famigliola era felice di fare qualche giorno di vacanza al mare, nella spiaggia più vicina, in un albergo senza pretese, senza ascensore, senza condizionatore d’aria e senza la televisione o il frigo-bar in camera: per poi tornarsene a casa contenta e riposata, pur senza aver fatto le ore piccole in qualche rinomata discoteca e senza aver visto le scogliere coralline e i tramonti tropicali delle Seychelles.
E parliamo, soprattutto, della capacità di essere se stessi, di sentirsi bene nella propria pelle, di non inseguire il miraggio schizofrenico dell’apparire ad ogni costo.
I nostri figli non sarebbero più disposti ad andare a scuola con un maglione qualsiasi o con i libri legati da una cinghia, come facevamo noi; ma quello che è stato guadagnato in termini di benessere, peraltro solo apparente, e di discutibile prestigio sociale, è stato irrimediabilmente perduto in termini di essenzialità e, quindi, di spiritualità.
E solo una ricca e fresca vita spirituale può consentirci di riconoscere gli appuntamenti che la vita predispone per noi, nella sua infinita saggezza, nonché di trarne il massimo bene possibile, vale a dire la spinta perché possiamo procedere nel cammino della consapevolezza.
Incontrare una persona che ci aiuti in tale cammino è una cosa divina: una cosa che dovrebbe farci fremere di emozione e di gratitudine, se solo non fossimo così intorpiditi e abbrutiti da un modo di porci di fronte alla vita contraddistinto da una totale inconsapevolezza.
Qualcuno potrebbe domandare, a questo punto, come si possano coniugare l’ingenuità e la consapevolezza: domanda che già di per se stessa tradisce l’ottenebramento spirituale, tipico di una visione della realtà profondamente inconsapevole.
Infatti, sarebbe come domandare come si possano coniugare l’innocenza e la grazia (intesa, quest’ultima, nel senso di dono soprannaturale). La grazia è figlia dell’innocenza, così come la consapevolezza è figlia dell’ingenuità: dove per ingenuità - lo ripetiamo - si intende qualche cosa di bello, di fresco, di pulito, uno stupore e una gratitudine di fronte al mondo, una disponibilità all’apertura e alla rivelazione.
Ritrovare quel tipo di ingenuità, vuol dire sintonizzarsi sulla giusta lunghezza d’onda per riconoscere gli incontri preziosi che ci sfiorano nella vita, forse ogni giorno e ogni ora.