Ricostruzione grafica del vulcano “Empedocle”- da archivio D. Macaluso
Ora che l’incubo di Eyjafjallajokull (dall’impronunciabile nome del vulcano islandese responsabile della calamitosa nube) sembra passato, anche se non del tutto, saggezza e previdenza vorrebbero che si riflettesse sulle nostre umane fragilità e sulle arroganti sfide contro madre Natura e soprattutto che si cominciasse a pensare, sul serio, come fronteggiare gli effetti catastrofici di nuove, similari emergenze. Tutto ciò si rende ancor più necessario, e urgente, in aree ad alta densità di tali fenomeni qual è la Sicilia.
L’Isola, infatti, si trova al centro di una fitta rete di vulcani che ne fanno una delle zone a più alto rischio del Pianeta.
Oltre a ben tre vulcani attivi, fra i quali l’Etna (il più grande d’Europa), v’insistono, sotto la superficie dei mari circostanti, almeno altri tre immensi, attivi ma “dormienti”.
La notizia dell’esistenza di questi vulcani sottomarini non è inedita, tuttavia resta
largamente sconosciuta al grande pubblico e sottovalutata dai governi e, talvolta, dagli stessi organismi preposti alla tutela della salute delle popolazioni e al buon andamento dei sistemi economici e dei servizi.
Ci riflettevo, l’altro giorno, a Ciampino quando, mentre ero in penosa attesa del volo per Siviglia (poi annullato causa “nube”) mi sovvennero le immagini eloquenti proposte dal dottor Domenico Macaluso, in una sua recente conferenza ad Agrigento,
e relative all’enorme complesso vulcanico, denominato “Empedocle”, scoperto sotto le acque del Canale di Sicilia, a 35 km dalla costa agrigentina, fra Sciacca e Siculiana.
Dopo anni di solitarie ricerche subacquee del medico riberese, oggi siamo sicuri dell’esistenza di questa inquietante realtà. Soprattutto, grazie agli esiti di una spedizione oceanografica, guidata dal prof. Giovanni Lanzafame dell’Istituto nazionale di geofisica e di vulcanologia (INGV) di Catania, che con l’ausilio di una strumentazione adeguata ha individuato e rilevato, nel maggio del 2006,
l’enorme complesso vulcanico che si estende, sotto il pelo dell’acqua, per circa 25 km in senso est-ovest e 30 km in senso nord-sud.
Quella che, nel 1831, si era manifestata come una piccola isola vulcanica (“
Ferdinandea”), contesa dalle principali potenze dell’epoca (Inghilterra, Francia e Regno delle due Sicilie) e, per fortuna, ben presto inabissatasi, in realtà altro non era che il prodotto di un’eruzione attraverso uno dei coni che s’innalzano dalla grande piattaforma vulcanica sottomarina.
Ma le preoccupazioni non si limitano a questo, nuovo esemplare. Intorno alle coste siciliane “riposano” altri mastodontici vulcani sottomarini. Sulla rivista “
Scienze e tecnologie” il prof. Enzo Boschi, presidente nazionale dell’INGV, ha lanciato
l’allarme per le conseguenze che potrebbe provocare un’eruzione del vulcano “Marsili”, (addirittura più grande dell’Etna poiché si estende per 70 km in lunghezza e 30 in larghezza) che s’innalza per tremila metri sotto il mar Tirreno, in prossimità delle isole Eolie.
Geologi e sismologi temono che un’eruzione possa provocare il cedimento delle pareti e quindi generare un’onda colossale (tsunami) dalle conseguenze imprevedibili. L’eventualità è confermata dal prof. Franco Ortolani, ordinario di geologia dell’università di Napoli, il quale, in uno studio del 2002, ha censito ben 72 movimenti (onde) anomali che hanno interessato le coste italiane, la gran parte dei quali si sono verificati fra Campania, Calabria e Sicilia.
Ci sarebbe da parlare anche del vulcano “Valilov” che trovasi a nord di Ustica e di altri scoperti nel golfo di Napoli ma credo che bastino quelli citati per dare un’idea dell’entità e della gravità del problema che abbiamo davanti… le coste siciliane.
Se ne scriviamo- sia chiaro- non è per creare facili allarmismi, ma solo per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e, soprattutto, degli organi responsabili politici e di governo sopra una realtà che non si può continuare a ignorare, specie dopo la disastrosa “nube” che ha bloccato il traffico aereo nei cieli d’Europa e di mezzo mondo. In particolare, la mancanza più grave- secondo gli scienziati- è data dal fatto che mentre si riesce ad assicurare il rilevamento e il monitoraggio dell’Etna e degli altri vulcani emersi, non altrettanto si riesce a fare per i grandi vulcani sommersi.
Di conseguenza, anche sul terreno della protezione civile scontiamo un vuoto previsionale e programmatico. Infatti, mentre sono stati predisposti piani (speriamo adeguati) per fronteggiare le eventuali emergenze derivanti dalle attività dell’Etna, dello Stromboli, ecc, nulla è stato approntato rispetto a quelle che potrebbero derivare dalle probabili eruzioni dei vulcani sottomarini. Certo, si tratta di un impegno di lungo respiro ed oneroso, anche sul terreno finanziario, tuttavia doveroso, se si tiene alla sicurezza delle nostre popolazioni.
Agostino Spataro
www.agoravox.it
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