Caro Fratello Fabio… Grazie per questo materiale… Avanti nel comprendere la Verità…Dolbyjack
4.2 Il sistema visivo umano
4.2.1 Il sistema ottico dell’occhio
Un’analisi del sistemo visivo umano non ha solo un interesse anatomico, ma permette di
evidenziare le ragioni di tutta una serie di accorgimenti fotometrici ed illuminotecnici di
estrema importanza. L’occhio (Fig.4.1) racchiude in se sia il sistema ottico vero e
proprio, che permette il formarsi delle immagini sulla retina, sia una propaggine del
sistema nervoso centrale che opera una prima analisi di tali immagini.
Prendendo in considerazione il sistema ottico il primo strato che si incontra è la cornea.
E’ uno strato trasparente non perfettamente sferico che contribuisce ai due terzi del
potere diottrico dell’occhio, trasparente per la radiazione visibile, ma è in grado di
assorbire la radiazione ultravioletta e in particolare la cosiddetta radiazione UV-B (280-
315 nm). L’effetto di assorbimento ha un’utilità poiché serve a proteggere gli strati
successivi dal danneggiamento che la radiazione UV potrebbe produrre. Allo stesso
tempo però tale assorbimento può avere un effetto nocivo sulla cornea, procurando
fastidiose irritazioni: le più comuni conseguenze dell’assorbimento di ultravioletto da
parte della cornea e dei tessuti circostanti sono cheratiti e congiuntiviti. Dopo la cornea
la radiazione incontra l’umor acqueo, composto perlopiù di acqua, che ha lo scopo di
trasportare ossigeno e nutrimento agli stati sottostanti. Successivamente la radiazione
deve passare attraverso la pupilla; si tratta di un foro, circondato dall’iride, che cambia
di dimensione a seconda della quantità di luce che vi arriva sopra: in presenza di poca
luce il foro tenderà a dilatarsi (anche fino a circa 8 mm in un giovane)[Rabbets], mentre
in condizioni di alta luminosità tenderà a contrarsi fino a 2 mm [Millodot]. In realtà la
condizione migliore per la visione non corrisponde a nessuno dei due estremi: una
pupilla troppo chiusa può infatti dare luogo a problemi di diffrazione (cfr.Cap.1) mentre
una pupilla molto dilatata evidenzierà le aberrazioni del sistema ottico dell’occhio.
Traversata la pupilla la radiazione giunge sul cristallino; è una struttura estremamente
complessa avente un indice di rifrazione variabile sulla sua superficie e in grado di
variare la propria forma e di conseguenza il proprio potere diottrico (pari a circa un
terzo del potere complessivo dell’occhio) per permettere l’accomodazione di oggetti a
distanza molto diversa tra loro. Anche il cristallino ha un’azione di filtro della radiazione
UV; in particolare è in grado di assorbire la radiazione UV-A (315-380 nm) e tale azione
di filtro è utile per le strutture oculari seguenti. Anche in questo caso tale effetto non
sembra avvenire senza alcuna conseguenza: studi epidemiologici evidenziano infatti che
l’assorbimento di UV da parte del cristallino può essere un fattore facilitante
dell’opacizzazione del cristallino stesso, la cosiddetta cataratta [Dovrat]: l’occhio
comincia a comportarsi come un filtro giallastro, modificando la percezione cromatica e
andando a cambiare le curve di sensibilità spettrali. Si tratta di un fattore da tenere
presente quando si prende in considerazione la possibilità della radiazione
elettromagnetica di provocare danni. Inoltre con il passare degli anni il cristallino perde
la sua capacità di variare potere; per questa ragione insorge il fenomeno della
presbiopia, che impedisce di leggere caratteri troppo vicini. Dopo aver traversato l’umor
vitreo la radiazione giunge infine sulla retina, che può analizzare il segnale.
4.2.2 La retina
La retina ha il compito di tradurre la luce in segnali nervosi, tanto che può essere vista
come una parte di cervello che è andata a piazzarsi dietro il sistema ottico dell’occhio, e
che è in connessione con il cervello tramite il nervo ottico. E’ una lamina di circa 1/4 mm
costituita da tre strati di neuroni. Lo strato è composto dai fotorecettori che sono di due
tipi, coni e bastoncelli; i coni non funzionano a basse intensità di luce, vedono i dettagli
fini e vedono i colori, mentre i bastoncelli funzionano anche con basse intensità di luce,
ma non sono in grado di distinguere dettagli fini e non contribuiscono (in linea generale)
alla percezione cromatica. Nella retina umana vi sono all'incirca 7 milioni di coni e 120
milioni di bastoncelli; i coni sono presenti in maniera estremamente densa soprattutto al
centro della retina, in una zona denominata fovea, mentre i bastoncelli sono distribuiti
soprattutto sul bordo della retina stessa. Una tale distribuzione non è casuale, dato che
i bastoncelli sono maggiormente sensibili al movimento e disposti sul bordo permettono
di individuare (ma non di riconoscere) oggetti in moto. E’ esperienza comune che, ad
esempio, quando si guarda direttamente lo schermo bianco di un monitor acceso e poi
si abbassa lo sguardo osservando lo schermo in tralice, lo sfarfallio dello schermo
stesso risulta molto più avvertibile, proprio perché in quel momento stiamo utilizzando i
bastoncelli. Una regione della retina attorno alla fovea viene detta macula e si estende
per circa 10° gradi orizzontalmente e 6° verticalmente [Fiorentini]. Tale zona contiene
un pigmento giallo, con un massimo di assorbimento a circa 460 nm. E’ un pigmento
non fotosensibile, ma in grado di filtrare la luce; esso può quindi avere importanza nella
percezione cromatica e nella sensibilità della retina. La diversa distribuzione spaziale di
coni e bastoncelli e la presenza dei pigmenti della macula sono alla base delle differenze
nell’uguagliamento dei colori e nella discriminazione cromatica tra la fovea e la zona
attorno ad essa. Per questa ragione la CIE nel 1964 è stata costretta a introdurre,
accanto al tradizionale osservatore standard con un campo visivo di 2°, un osservatore
con un campo visivo di 10° destinato alla visione extrafoveale. Tale osservatore,
decisamente più sensibile alle corte lunghezze d’onda, andrebbe utilizzato tutte le volte
in cui il colore riguarda grandi aree. La presenza dei tre coni è di rilevante importanza
per la percezione cromatica come vedremo in seguito.
Il secondo strato, formato dalle cellule bipolari e il terzo strato, composto dalle cellule
gangliari permettono il passaggio del segnale verso il cervello e favoriscono la
percezione dei contrasti (si veda il successivo paragrafo 3). Anche se dal punto di vista
dell’analisi del segnale questi due strati seguono i fotorecettori, dal punto di vista
fisiologico essi sono davanti al primo strato retinico. Per questa ragione il segnale
nervoso per raggiungere il cervello deve riattraversare lo strato dei fotorecettori: tale
strato è infatti bucato e una parte della retina è priva di sensibilità, il cosiddetto punto
cieco.
4.2.3 La visione dei colori
Negli esseri umani i coni hanno tre diverse classi di fotopigmenti, che sono sensibili a
zone diverse dello spettro luminoso. I massimi di sensibilità sono a 560 nm per i coni
cosiddetti L (long) che coprono le lunghezze d’onda più lunghe, 530 nm per i coni M
(medium) e 420 nm per i coni S (short) che sono sensibili alle lunghezze d’onda più
corte (vedi Fig.4.2). Tali coni vengono talvolta chiamati, in maniera non completamente
precisa, coni rossi, verdi e blu, dato che sono deputati a assorbire, grosso modo, tale
parte dello spettro. Se vi fosse un solo tipo di pigmento deputato alla visione del colore,
con una fissata curva di risposta, sarebbe impossibile distinguere i cambiamenti
contemporanei di intensità e di lunghezza d'onda, non potendo capire se stiamo
ricevendo un’elevata intensità di energia in una zona spettrale di bassa sensibilità o
l’esatto contrario, cosa che impedirebbe la discriminazione dei colori. Tale effetto viene
detto principio di univarianza di Rushton ed è confermato dalle analisi sui soggetti umani
anomali aventi un solo ricettore del colore così come dagli studi sugli animali con un
solo tipo di cono. Per avere visione del colore la condizione minima è che la retina
contenga due tipi di fotopigmenti con diverse proprietà di assorbimento spettrale. La
presenza di tre tipi di fotorecettori si accorda benissimo con la necessità di avere tre
colori linearmente indipendenti per poter ottenere tutti gli altri, secondo la prima legge
di Grassmann [Ronchi]. I tre fotorecettori non sono equamente distribuiti nella retina,
dato che i blu sono presenti in percentuale molto più scarsa al centro della retina. La
scarsità di fotorecettori blu al centro della fovea fa si che quando si guardano oggetti
con un campo visivo molto ristretto (0.5°) si può non eccitare alcun fotorecettore di
questo tipo, dando luogo a un’anomalia nella percezione del colore.
Per capire il significato delle curve di sensibilità dell’occhio umano quali la V(λ),
descritte nel capitolo dedicato alla fotometria, è necessario rendersi conto che, come già
detto, i coni non sono presenti nella stessa quantità all’interno della retina; inoltre
bisogna anche tener presente che la distribuzione dei coni cambia allontanandosi dal
centro della fovea. Anche le curve scotopiche e mesopiche traggono la loro ragione di
essere dal funzionamento dei fotorecettori: in condizioni in cui il sistema visivo è
adattato ad un alto livello di luminanza (maggiore di 3 Cd/m2) la risposta sarà dominata
dai coni (visione fotopica); quando il sistema visivo è adattato a luminanze molto basse
(minori di 0.001 Cd/m2) i coni non potranno contribuire alla visione, mediata dai soli
bastoncelli (visione scotopica); lo stadio intermedio è detto visione mesopica. La
sensibilità dell’occhio in visione scotopica è stata definita dalla CIE con la curva V’(λ)
(osservatore scotopico standard). Tale curva ha un picco a 507 nm e valori molto più
alti rispetto a V(λ) nelle corte lunghezze d’onda del visibile e molto più bassi nelle
lunghe lunghezze d’onda. Questa differenza di comportamento viene detta effetto
Purkinje. Il passaggio del funzionamento da coni e bastoncelli non è immediato: per
questa ragione se seguiamo l’andamento della minore luminanza percepibile dall’occhio
in funzione del tempo otteniamo un grafico che ha una brusca variazione in un momento
compreso tra gli otto e i dieci minuti. Tale variazione è dovuta al passaggio tra coni e
bastoncelli (Fig.4.3).
La risposta dei coni viene riorganizzata dalle strutture nervose successive. La teoria
attuale prevede la presenza di un canale acromatico e di due canali cromatici fondati su
un meccanismo di opponenza. Il canale acromatico riceve segnali dai coni L e M (il ruolo
del cono S in questo canale, come anche nel canale rosso-verde è tuttora da chiarire),
fornendo un’informazione di luminanza. Il canale opponente rosso-verde fornisce il
confronto tra la risposta dei coni M e quella dei coni L mentre il canale giallo-blu
fornisce il confronto tra il segnale dei coni S e quello ottenuto sommando i coni L e M
(Fig.4.4).
Va ricordato che un’elevata percentuale di maschi (circa l’8%) lamenta delle anomalie
nella visione dei colori dovute a malfunzionamenti totali o parziali di uno o più coni. Nelle
femmine tale percentuale è molto più bassa (circa lo 0.4%)[Birch]. La sensibilità
spettrale di queste persone è molto diversa da quella prevista dalle curve CIE.
2.4 Il metamerismo
La definizione e la perfetta individuazione di un colore sono un problema assai vasto
alla base della colorimetria (cfr. Cap.6). Si potrebbe ipotizzare, come possibile risposta,
di identificare il colore di un oggetto attraverso il suo spettro di riflettanza, cioè la
percentuale di luce che viene riflessa indietro per ogni lunghezza d’onda. Ma tale
definizione presupporrebbe una visione del colore basata su molti sensori che prendono
in considerazione una singola lunghezza d’onda. Ma la risposta del nostro sistema
visivo è mediata dalla presenza di soli tre coni (alcuni uccelli, come ad esempio i
piccioni, possono vantare 5 tipi diversi di coni e possono quindi riconoscere una grande
quantità di sfumature di colore) e non è possibile analizzare lo spettro in dettaglio.
Il funzionamento del sistema visivo umano per ciò che riguarda la visione del colore può
far si che due colori, pur avendo spettri di riflettanza completamente diversi appaiano
dello stesso colore: si tratta del fenomeno del metamerismo e i due stimoli che appaiono
identici si dicono metamerici. E’ un fenomeno che gli americani chiamano “problema
della giacca e dei pantaloni”. Infatti capita che due capi di abbigliamento (si pensi in
particolare a abiti scuri) possano apparire dello stesso colore sotto una particolare
sorgente artificiale di illuminazione e diversi sotto un’altra (Fig.4.5). E’ abbastanza tipico
in situazioni come queste esaminare gli oggetti sotto un’altra sorgente, tipicamente il
Sole, per poter cogliere eventuali differenze.
Questo fenomeno sembra suggerire una robustissima influenza nella nostra percezione
del colore da parte del tipo di sorgente luminosa che stiamo prendendo in
considerazione, dipendenza che appare evidente quando si vogliono realizzare
fotografie sotto la luce artificiale: un oggetto bianco, fotografato con una pellicola
tradizionale, ma ritratto sotto una lampadina ad incandescenza, apparirà rosa-arancione
(Fig.4.6). Uno spettroradiometro permette di evidenziare immediatamente se siamo di
fronte a stimoli metamerici, dato che è in grado di fornirci lo spettro di riflettanza della
superficie. Esistono però anche strumenti che, pensati per un funzionamento che ricordi
la nostra visione, non rivelano il metamerismo e che vengono generalmente detti
colorimetri. In tali strumenti non esiste l’elemento disperdente: la luce filtrata viene
inviata su tre diverse fotocellule che permettono di elaborare tre numeri corrispondenti
alla risposta sulle lunghezze d’onda corte, medie e lunghe. Non ha molto senso
chiedersi quale misura sia più “vera”: quello che è certo è che il mestiere dei progettisti
illuminotecnici risulterebbe estremamente impegnativo se il funzionamento del nostro
sistema visivo si fermasse alla stretta dipendenza dallo spettro di riflettanza, dato che
tutto la fatica andrebbe a ricadere nel tentativo, spesso utopico, di riprodurre con le
nostre sorgenti artificiali l’illuminazione solare.
4.2.5 la costanza del colore
Per fortuna vi è un’altra capacità estremamente interessante del nostro cervello, detta
costanza di colore, che ci permette di continuare a vedere un oggetto dello stesso
colore anche sotto sorgenti spettralmente molto diverse, come può essere il caso di una
lampada ad incandescenza, del cielo blu, del sole al tramonto o di una lampada
fluorescente. Uno degli esperimenti più interessanti in questo settore fu realizzato da
Land nel 1974 [Land], utilizzando mosaici di pezzi di carta colorata simili a un quadro
di Mondrian. Proviamo a darne una breve descrizione. Per illuminare il dipinto si
utilizzano, in una stanza buia, tre proiettori con tre filtri cromatici abbastanza stretti su
corte (filtro blu), medie (filtro verde) e lunghe (filtro rosso) lunghezze d’onda. I tre
proiettori sono guidati da tre potenziometri in modo da poterne variare l’intensità di
emissione con continuità per un ampio intervallo di valori. Per prima cosa con tutti e tre i
proiettori accesi in modo da poter simulare una sorgente luminosa “bianca” si valuta il
colore di una delle macchie: immaginiamo che tale macchia appaia blu. Possiamo
misurare, utilizzando uno spettrofotometro, la risposta di intensità luminosa della
macchia tenendo accessi alternativamente ognuno dei tre proiettori ed ottenendo così
una terna di valori corrispondente alla nostra percezione blu. A questo punto si misura
con il nostro spettrofotometro un’altra macchia di colore diverso, ad esempio verde.
Accendendo solo il proiettore rosso si modifica il valore del potenziometro in modo da
riprodurre esattamente la stessa lettura che abbiamo avuto per la macchia blu. La
stessa procedura si ripete per gli altri due proiettori. E’ facile immaginare che, a questo
punto, se accendiamo tutti e tre i proiettori contemporaneamente la nostra macchia
apparirà blu, dato che le letture coincidono: in realtà la macchia continua ad apparire
verde, senza preoccuparsi dell’equivalenza delle letture. Per Land questo provava che il
colore di una superficie all’interno di una scenario complesso non dipendeva solo dallo
stimolo fisico. In un certo qual modo il nostro cervello deve essere in grado di valutare
le caratteristiche spettrali di un illuminante e deve poter ricostruire le caratteristiche
della superficie illuminata, deve ciò saper “sottrarre l’illuminante”. Questo tipo di
capacità è di fondamentale importanza per poter assegnare un valore all’informazione
legata al colore, e per questa ragione è una capacità che non è esclusiva degli essere
umani, come ha provato un interessante esperimento di Ingle del 1985 condotto sui
pesci [Ingle]. Egli addestrò gli animali a raggiungere sempre, all’interno di un dipinto
stile Mondrian, le macchie di un determinato colore. Quello che notò fu che i pesci
tendevano sempre a dirigersi verso le macchie di quel colore anche quando il
cambiamento di illuminazione provocava una variazione nelle lunghezze d’onda riflesse
dalla superfici: anche i pesci sono quindi dotati della costanza di colore. Questo
fenomeno permette al progettista illuminotecnico di scegliere, entro certi limiti, lampade
con una diversa resa del colore senza modificare eccessivamente la percezione
cromatica delle persone (ed eventualmente anche degli animali) presenti nella stanza.
Anche la costanza del colore ha dei limiti. Il più interessante è quello per cui essa non
può funzionare quando il nostro campo visivo è occupato da una singola superficie
colorata illuminata da una sorgente nascosta: in questo caso il sistema visivo non ha
alcuna informazione utile per scomporre il contributo della superficie da quello della
sorgente. Per avere costanza di colore è quindi assolutamente necessario avere a
disposizione almeno due superfici di colore diverso all’interno della scena osservata, il
che suggerisce che il colore di una superficie sia determinato non solo dalla
composizione spettrale della luce riflesse dalla superficie, ma anche dalla composizione
spettrale di tutto ciò che la circonda. E’ come se il nostro sistema visivo in questo modo
fosse in grado di valutare i rapporti di riflettanza tra i vari colori.
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