Tsunami italiani e sorgenti tsunamigeniche. Secondo il “catalogo degli tsunami italiani” dell’Ingv ed i numerosi studi eseguiti dal Prof. Stefano Tinti (tra cui “The New Catalogue of Italian Tsunamis”, redatto conA. Maramai e L. Graziani, 2004), negli ultimi duemila anni l’Italia è stata interessata da una settantina di tsunami. Considerando invece soltanto gli ultimi quattrocento anni, periodo in cui i dati sono più certi e sicuri, ogni secolo il nostro paese è stato afflitto da almeno una quindicina di maremoti, molti dei quali tuttavia di intensità labile e sconosciuti ai più, taluni ancora da verificare scientificamente. Potrà forse sorprendere che, se da un lato esistono zone in cui i fenomeni si sono sviluppati con maggiore frequenza ed intensità (su tutti la Sicilia Orientale e lo Stretto di Messina), le coste di ogni regione italiana hanno subìto tsunami, dalla Liguria al Friuli-Venezia Giulia. Ciò anche per un motivo ben preciso: il nostro paese, oltre che “geologicamente giovane”, è al centro del Mediterraneo, bacino in cui (secondo la teoria della tettonica a zolle) si scontrano la placca africana e quella euroasiatica. Le zone di contatto tra placche (dette aree di subduzione) rappresentano le cosiddette “sorgenti tsunamigeniche” per antonomasia ovvero le aree in cui possono generarsi tsunami a seguito di violenti terremoti connessi al movimento reciproco delle placche (o zolle). In particolare, nel Mediterraneo tali sorgenti sono posizionate al largo dell’Algeria, nell’Italia Meridionale, nel Mar Egeo e nel Mar di Marmara (Tinti S., “I maremoti delle coste italiane”, Geoitalia, 2007). Molte di esse (ed in particolare le loro diramazioni secondarie, appartenenti alle microplacche) sono alla base della maggior parte degli tsunami che hanno colpito il nostro paese dove però si registra una sorta di anomalia molto particolare. Secondi i dati storici e scientifici, in Italia infatti, a conferma di quanto la nostra penisola sia molto attiva dal punto di vista geodinamico, la percentuale di tsunami dovuti a cause non sismiche (eruzioni e frane) risulta superiore, e non di poco, rispetto al resto del mondo.
Lo tsunami dimenticato. Il primo tsunami (con riscontri oggettivi) verificatosi sulle nostre coste fu infatti generato proprio da una frana. Bisogna però viaggiare molto indietro nel tempo. All’incirca nel 6000 A.C., dunque ben 8000 anni fa, in pieno periodo neolitico, si verificò la catastrofe naturale più devastante che abbia mai interessato le coste italiane.
Venuto alla luce soltanto pochi anni fa, a seguito delle brillanti ricerche eseguite dall’INGV di Pisa sotto la direzione del Prof. Boschi (con la collaborazione dei geofisici Pareschi, Favalli e Mazzarini), questo tsunami è legato ad un impressionante movimento franoso, dell’ampiezza addirittura di 35 km cubici, con origine sul versante orientale dell’Etna, per la precisione nell’attuale Valle del Bove che tra l’altro deve la sua odierna conformazione geomorfologia (un’ampia concavità nella quale si raccolgono molti depositi lavici) proprio a questo evento.
Perforazioni del fondo marino, studi batimetrici ed un’accattivante quanto dettagliata ricostruzione al computer dell’evento (visibile sul web all’indirizzo www.pi.ingv.it/Focus/tsunami.html) consentono di aprire uno squarcio su un fenomeno talmente dimenticato e sconosciuto da essere chiamato “lost tsunami” ovvero lo “tsunami dimenticato” (o perduto). E talmente violento ed imponente, per forza ed estensione geografica, da guadagnarsi l’appellativo di “megatsunami”.
La causa della catastrofe al momento non è nota ma, a detta dello stesso Prof. Boschi, si ipotizzano due possibilità: una gigantesca eruzione dell’Etna oppure un violento terremoto. Entrambi i casi comunque avrebbero generato un enorme movimento franoso nel versante orientale del vulcano: in una decina di minuti il terreno franato, composto ovviamente da depositi lavici, sarebbe arrivato sul fondo dello Ionio, depositandosi fino a 20 km dalla costa e dando dunque inizio allo sconvolgimento marino ed allo sviluppo di onde enormi, alte certamente fino a 30 metri, forse anche 40.
La simulazione al computer dimostra che nel giro di pochi minuti le onde si sarebbero abbattute violentissime sulle coste siciliane, non riuscendo però verso Nord a penetrare nel Tirreno causa il blocco (geografico e batimetrico) formato dallo Stretto di Messina. In un quarto d’ora, viaggiando a velocità oscillanti tra i 200 ed i 700 km/h, sarebbero giunte sulle coste ioniche di Calabria e Puglia, quindi in Albania e poi in Grecia dove sarebbero arrivate circa due ore dopo e con altezze intorno ai 10-15 metri.
Avrebbero quindi percorso tutto il Mediterraneo, giungendo in Africa (dove il Golfo della Sirte, con la sua forma arcuata, avrebbe amplificato il fenomeno) e perfino in Medio Oriente, Libano e Palestina.
Proprio da lì, precisamente da Israele, arriva una clamorosa conferma interdisciplinare a questa affascinante scoperta: dagli studi effettuati a seguito di scavi in loco, un importante sito archeologico neolitico, il villaggio costiero di Atli-Yam, risulterebbe abbandonato repentinamente, proprio come se gli abitanti fossero stati improvvisamente sorpresi da un evento inaspettato quale appunto potrebbe essere un’onda di tsunami.
A seguito di questa scoperta, sorge spontanea una domanda: un simile evento, magari anche di proporzioni minori, potrebbe ripetersi?
La risposta è inequivocabilmente sì. Per due fondamentali motivi. Al di sotto dei sedimenti corrispondenti a questo fenomeno, ne sono stati scoperti altri similari, dunque come se nel passato ancora più remoto si fosse già verificato un evento analogo.
Inoltre, attualmente, indagini sismiche e tramite GPS dimostrano che il versante Nord-Orientale dell’Etna sta slittando costantemente verso Est, ad una velocità di 1-2 cm all’anno, con punte anche superiori nei momenti di maggior turbolenza eruttiva. La causa principale di questo movimento sembra imputabile alla cosiddetta “faglia pernicana” che si sviluppa sullo stesso versante orientale del vulcano, giungendo fino a Fiumefreddo, praticamente sulla costa ionica. Dunque mai come stavolta il passato insegna e la scienza aiuta, ma purtroppo spesso si dimenticano questi due basilari precetti.
La Sardegna come Atlantide? Un altro evento molto antico, ma ancora tutto da valutare ed accertare, riguarda la Sardegna. Secondo la teoria promulgata da Sergio Frau nel libro “Le Colonne d’Ercole” (Nur Neon, 2002), intorno al 1200 a.c. la parte meridionale dell’isola sarda, in particolare la Piana del Campidano, sarebbe stata colpita da uno tsunami di enorme intensità, con onde alte addirittura 500 metri, che avrebbe spazzato via gran parte della civiltà nuragica. A sostegno di questa affascinante ipotesi, che vede la Sardegna poter essere addirittura la mitica Atlantide vagheggiata da Platone, esistono diversi indizi, correlati soprattutto agli stessi nuraghi che nella parte meridionale dell’isola paiono distrutti o sepolti da fango e detriti quando sono posizionati a quote più basse od in pianura. I nuraghi invece della porzione più settentrionale dell’isola, in particolare a Nord dell’imponente sito di Barumini (anch’esso sepolto e riportato alla luce soltanto 60 anni fa), risultano intatti. Da qui, e da altre osservazioni minori, scaturisce l’ipotesi di un tremendo tsunami, originato da un’eruzione di uno dei vulcani sottomarini situati al largo di Cagliari: le immense onde si sarebbero dirette con violenza a nord, devastando il Campidano e risalendo la pianura per diverse decine di km fino al limite dell’altopiano della Giara che avrebbe in qualche modo formato una specie di diga per le acque. Ipotesi verosimile e compatibile con quanto osservabile sul terreno, ma che per molti studiosi e tecnici ancora deve essere suffragata da indagini più accurate e da prove certe.
Tsunami vesuviano. Non completamente attendibile, soprattutto per la scarsezza di informazioni precise al riguardo, anche lo tsunami legato ad un altro vulcano e ad un’altra eruzione, ben più noti. Tutti infatti conoscono la catastrofica eruzione del Vesuvio nell’anno 79 (per la precisione il 24 Agosto) e la celebre “nube ardente” che distrusse Pompei ed Ercolano. Associato a questa eruzione, alcune cronache del tempo (tra cui quella celebre di Plinio il Giovane) parlano di “un arretramento” del mare il 25 Agosto, giorno successivo all’inizio dell’eruzione. Proprio a causa di questo fenomeno Plinio il Vecchio non riuscì a sbarcare con la sua nave presso Ercolano e dovette ripiegare su Stabia dove sarebbe comunque morto a seguito dell’eruzione. Tutto lascia supporre che questo arretramento sia legato ad uno tsunami, provocato dall’eruzione e dal conseguente movimento sismico. Tsunami di un’intensità comunque lieve: 2 su una scala da 1 a 6. 2 è anche il valore attribuito dagli scienziati all’attendibilità di questo evento data la scarsezza di informazioni precise al riguardo (Tinti S. ed altri, 2004).
Tsunami bizantino. Ben più certo, anzi certissimo, quanto invece accaduto neanche tre secoli dopo. Tutto il Mediterraneo viene sconvolto da un altro megatsunami, originato da un grande terremoto legato allo scontro tra placca africana ed euroasiatica nella porzione orientale del Mare Nostrum. Tra il IV ed il V secolo si verificò nell’area una lunga sequenza di scosse sismiche, denominate in seguito “parossismo tettonico dell’era bizantina”. Il principale evento di questa serie si sviluppò il 21 Luglio del 365, non a caso definito nella memoria collettiva di allora come “giorno dell’orrore”. Diverse ipotesi si sono succedute nel tempo per posizionare l’epicentro del sisma. Studi recenti, condotti dalla ricercatrice inglese Beth Shaw, basati anche sul ritrovamento di coralli ad un’altezza di circa 10 metri sull’attuale livello del mare e datati col radiocarbonio proprio intorno al III-IV secolo, portano a ritenere plausibile che il terremoto si sia originato poco a sud di Creta, in seguito al movimento lungo una faglia inversa con angolo sub-orizzontale (circa 30°). Questo significa, rispetto ad una faglia sub-verticale, uno sforzo ben maggiore per innescare il movimento e dunque un’energia considerevole all’atto del sisma: difatti la magnitudo ipotizzata per questo evento oscilla tra 8 e 8.5, molto alta e rara per il Mediterraneo ma in linea con i danni connessi. Se infatti la grande maggioranza delle costruzioni di Creta andò distrutta o rimase lesionata, lo tsunami attraversò tutto il Mediterraneo. I massimi danni, anche in termini di vite umane, si verificarono ad Alessandria d’Egitto dove il mare dapprima si ritirò per alcune decine di metri e poi piombò sulla terraferma con inaudita violenza, trascinando le navi fino a due km nell’interno della costa, come narra lo storico romano Ammiano Marcellino, allora presente proprio nella città egiziana. Quasi cinquantamila i morti stimati. Ma lo tsunami, propagandosi da Creta, giunse anche in Libia (dove venne parzialmente sommersa la città di Apollonia), Medio Oriente, Cipro, perfino in Croazia (segnalate vittime a Dubrovnik) e pure (in un’ora circa) sulle coste orientali della Sicilia (ecco perché ci riguarda) come confermato da alcune recenti prospezioni nell’area di Pachino (per la precisione nel Pantano Morghella) che hanno evidenziato sedimenti riconducibili a questo evento presenti un km all’interno della costa attuale. Dunque, il pericolo arriva anche da Oriente.
Tsunami ionici. Un altro evento catastrofico si sviluppa il 4 Febbraio 1169, teatro nuovamente la Sicilia Orientale, colpita da un terremoto di magnitudo stimata 6.6, con epicentro a NE di Lentini (DBMI04, Stucchi ed altri, 2007). L’intensità è molto violenta, valutata intorno al X grado della Scala Mercalli ed a Catania, semidistrutta, si contano circa ventimila morti. Danneggiate in modo sensibile anche Modica, Lentini e Piazza Armerina. Le scosse avvertite chiaramente pure a Siracusa dove le acque della mitica fonte Aretusa diventano improvvisamente scure ed agitate. Contemporaneamente al sisma si verifica un’eruzione dell’Etna (pare con parziale crollo del versante orientale) ed a seguire uno tsunami, particolarmente intenso (valore 4 su un massimo di 6) a Messina dove, come raccontato dallo storico siciliano Isidoro La Lumia, dapprima il mare arretra di 4-5 metri e poi inonda la città, distruggendo gran parte delle sue mura ed il porto: sconosciuto il numero delle vittime. Stessa situazione alla foce del Simeto, a sud di Catania (poco lontano dall’attuale aeroporto di Fontanarossa) dove le acque risalgono, per parecchie centinaia di metri, pure l’alveo del fiume e distruggono il paese di Casal Simeto che non sarà più ricostruito. La Sicilia Ionica rimane l’area più soggetta a tsunami nell’antichità. Un altro evento, di cui si hanno però pochi riscontri, si sarebbe verificato il 28 Giugno 1329, a seguito di una violenta eruzione dell’Etna la quale avrebbe provocato un terremoto ed uno tsunami che, invadendo la spiaggia prospiciente il paese di Mascali, avrebbe trasportato in mare alcune barche disposte in secca sulla riva.
Si deve poi arrivare a metà del Quattrocento per riscontrare un’altra possibilità di tsunami. Il 5 Dicembre 1456 si verificò un terremoto distruttivo nell’Italia Meridionale, detto “del Molise”, i cui effetti vennero avvertiti dall’Abruzzo alla Calabria: epicentro vicino a Bojano, magnitudo 6.9-7. Secondo alcuni ricercatori (Mastronuzzi&Sansò, 2000), associato a questo sisma si sviluppò uno tsunami (possibile origine da frana sottomarina) che colpì in particolare le coste ioniche pugliesi, tra Taranto e Gallipoli: il ritrovamento di grandi blocchi di biocalcareniti a 40 metri dalla costa attuale, particolarmente evidente nella zona di Torre Squillace (Porto Cesareo), confermerebbe il fenomeno in quanto i blocchi (dal peso anche di 80 tonnellate) sarebbero giunti fin lì sospinti proprio da onde di tsunami.
Tsunami nordici. Anche il Cinquecento non fu immune da tsunami, tutt’altro. Stavolta però bisogna trasferirsi al Nord. Il 26 Marzo 1511, alle ore 14.40, si verifica in Friuli un terremoto di magnitudo 6.5, con epicentro posizionato a NE di Gemona, al confine con l’attuale Slovenia, dunque a qualche decina di km dalla costa (DBMI04,Stucchi ed altri, 2007). Vengono segnalati danni a Udine e Venezia, ma il sisma è avvertito chiaramente anche in Austria, Slovenia, Croazia e perfino Germania. A Venezia si segnalano anomalie nel livello dell’acqua nei canali: in alcuni casi si nota una risalita, in altri addirittura quasi un prosciugamento. Lo tsunami però si verifica a Trieste, con lieve intensità ma tale comunque da suscitare panico nella popolazione che si riversa nella parte più alta della città, essendo il litorale sommerso dal mare. Dunque pure l’Adriatico non pare al riparo dagli tsunami. Cinquant’anni più tardi, il 20 Luglio 1564, ad essere colpito fu invece il Mar Ligure. Origine del fenomeno un terremoto, di magnitudo 5.7-5.8, il cui epicentro viene localizzato sulle Alpi Marittime, in Francia ma prossimo al confine italiano, 30 km a nord di Nizza. Circa 700 i morti dovuti al sisma, avvertito con una certa violenza anche a Sanremo e fino ad Imperia. Lo tsunami susseguente non investe direttamente l’attuale territorio italiano ma colpisce soprattutto Nizza ed Antibes dove vengono allagati strade ed abitazioni al piano terreno. Ogni mare italiano pare perciò a rischio tsunami: è questa la verità, spesso inascoltata, che ci giunge dall’antichità.
http://www.meteoweb.eu/2011/11/gli-tsunami-italiani-antichi-dal-neolitico-al-500/97701/
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